Visto e considerato che quelle che da un anno dovrebbero sorgere nei paesi colpiti dal terremoto ancora non si vedono, come rete Terre In Moto, abbiamo voluto consegnare alla Regione le nostre SAE, che con l’occasione ribattezziamo “Soluzioni abitative in attesa eterna”.
MARCIA DEL RITORNO - Domenica 29 ottobre 2017 da Maddalena di Muccia a Pievetorina
Ad un anno dalle scosse del 26 e 30 ottobre 2016 una manifestazione per tutti coloro che resistono e per chi ha a cuore i territori colpiti dal sisma.
Le foto della manifestazione
Ma dopo il terremoto chi le paga le bollette?
Una delle prime domande che ci siamo posti quando abbiamo scoperto che il M.A.P.R.E.*, il modulo abitativo che ci avevano fornito, è tutto elettrico (fornelli, riscaldamento, acqua calda) è stata: “E chi le paga le bollette?”
E non perché non vogliamo pagare, ma qualcuno mi deve spiegare per quale motivo, delle persone che hanno perso la casa, si devono trovare a pagare delle bollette più alte del normale, solo perché qualcun altro ha scelto loro di farle vivere (per anni), in una baracca che funziona solo a corrente, con isolamento termico quasi nullo, in montagna, dove lo scorso inverno siamo arrivati tranquillamente a -12°C e dove basta un temporale per far andare via la luce due giorni.
Vuoto a perdere: i borghi fantasma di Serravalle del Chienti - Lo stato delle cose
Foto di Mario Capriotti
Il futuro è già passato, e non ce ne siamo nemmeno accorti.
(Vittorio Gassman in C’eravamo tanto amati di Ettore Scola, 1974)
Percorrendo la SS77 all’altezza di Colfiorito, al confine tra Marche e Umbria, è possibile imboccare una strada che non consente solo un viaggio nello spazio ma anche nel tempo.
L’itinerario ci porta verso Sud e attraversa alcuni dei paesi e dei borghi che furono devastati dal terremoto del ’97, di cui in queste settimane si ricorda il ventennale. Un terremoto che fu seguito da una ricostruzione citata come modello in convegni e incontri. Ricostruzione che viene impietosamente paragonata alla gestione “del post sisma dell’emergenza continua” tuttora in corso nelle regioni dell’Appennino Centrale. Percorrendo quella strada, dicevamo, si attraversano spazi incantevoli da un punto di vista paesaggistico, come d’altra parte è consuetudine in quell’area dell’Appennino. Scendendo ancora si arrivava a Visso, “si arrivava” perché il tratto della Valnerina che conduceva alla sede del Parco nazionale dei Monti Sibillini è chiuso a causa di un’imponente frana che ha persino spostato il corso del fiume. Ma noi nel nostro viaggio non dobbiamo arrivare a Visso, la porzione di territorio che ci interessa e che riempie di vuoto le foto di Mario Capriotti si trova chilometri prima.
Il nostro viaggio nello spazio ci porta ad Acquapagana, Cesi, Corgneto, Taverne e in altri borghi che tolgono il fiato per la loro mancanza di vita. Case in legno o in muratura perfettamente uguali tra di loro ricostruite secondo il modello del ’97, perfettamente uguali anche nel trasmettere una sensazione di spaesamento che lascia attoniti. Quegli spazi avevano accolto venti anni fa gli sfollati dei rispettivi paesi ma nel corso di queste decadi sono diventati dei feticci di nuclei abitati. Anche nel mese di agosto, periodo in cui sono state scattate le foto e in cui qualche seconda casa si ripopola, sembra di essere in un set cinematografico abbandonato. Un villaggio del far west creato ad hoc per girare qualche scena in esterno giorno con i terremotati al posto dei pistoleri con le loro colt. Lo spazio vuoto ha una tale forza che è persino difficile immaginare quei luoghi popolati, quello spazio vuoto stride con il racconto del “modello ’97” che viene proposto in queste settimane, in questi mesi, in questi anni.
Anni. Abbiamo parlato di un viaggio nello spazio e nel tempo, questa seconda parte del cammino però non ci porta indietro a quando quelle strutture sono state edificate ma ci porta avanti verso un futuro distopico. I borghi vuoti raccontati attraverso queste immagini non ci parlano solo di un bug in un modello che pareva inattaccabile ma gridano, urlano senza voci per avvertirci che i paesi di tutto l’Appennino rischiano di fare la stessa loro, solitaria fine. Sono lì a testimoniare che ricostruire un paese non significa solo ricostruire le case. E adesso ai vuoti svelati dalle foto di Capriotti si aggiungono qua e là in quelle stesse immagini nuove macerie accatastate, a testimoniare che c’è stato un altro terremoto nel 2016.
Se non interroghiamo la memoria con un’idea di futuro rischiamo semplicemente di rincorrere modelli applicandoli in contesti diversi, semplificando e allontanando la complessità. Ancora una volta saranno modelli emergenziali che non terranno conto di quello che sarà, che non affronteranno il vero modello che andrebbe aggredito: il modello di sviluppo.
Immaginare l’intera area colpita dal terremoto del 2016 svuotata dai suoi abitanti fa venire le vertigini, ma anche qui occorre non generalizzare. Molti paesi, anche se a stento, sopravviveranno comunque e altri probabilmente ne usciranno addirittura rafforzati. Non dobbiamo però dimenticarci che ogni pezzo che andrà perso modificherà il quadro d’insieme e potremmo ridurci ad avere solo un’astrazione selettiva della realtà.
Così il terremoto ha ridato linfa alla strategia dell’abbandono - Leonardo Animali per Lo stato delle cose
Castelluccio. Ottobre 2017 |
[Articolo originale su Lo stato delle cose]
La strategia dell’abbandono abita da sempre sull’Appennino. Sta lì, silente e dormiente per lungo tempo, un po’ come le faglie nella crosta terrestre. Poi, come il terremoto, all’improvviso ritorna ciclicamente a manifestarsi con tutta la sua forza, arruolando proseliti, capi ed esecutori. Il terremoto, al pari di altre calamità naturali, è il suo più grande complice, un validissimo “facilitatore”. Nel tempo, durante le fasi di quiete, la strategia dell’abbandono si alimenta di cattiva edilizia, saccheggio del paesaggio e delle risorse naturali, mancata prevenzione geomorfologica, e di patrimoni immobiliari lasciati all’incuria da eredi, che neanche si ricordano di essere proprietari di una casa della bisnonna.
La cattiva politica è la sua linfa vitale: politici e governanti di scarse qualità e improvvisate che rincorrendo i falsi miti del decisionismo, dell’efficienza e della razionalizzazione, hanno ridotto gli spazi democratici e rappresentativi, quasi azzerato i servizi alle persone, svenduto e privatizzato beni pubblici e risorse naturali. Amministratori locali senza poteri di intervento efficaci e sanzionatori verso quanti lasciano depauperare un patrimonio immobiliare, fino al punto di renderlo pericoloso per tutti. Si parla degli artefici di scelte politiche che pensano prima ai turisti che agli abitanti e, di conseguenza, asservite spesso a imprenditori senza scrupolo che considerano i cittadini esclusivamente come dipendenti o clienti.
Classi dirigenti inconsapevoli del fatto che sull’Appennino i turisti ci sono se i paesi sono vivi, se chi ci abita è anche un animatore della vita del proprio borgo, se ci sono servizi alla persona (sociali, sanitari, culturali), se le strutture ricettive sono sicure, se le due stanze che prendi in affitto per una settimana (e magari in nero), non ti si accartocciano sopra di notte se arriva il terremoto. Ma anche classi dirigenti che consapevolmente preferiscono che, sui territori interni e montani, meno abitanti ci sono e meglio è, perché con gli abitanti non si possono favorire grandi operazioni industriali dal violento impatto ambientale, loschi e opachi progetti di consumo del territorio. Meglio per tutto ciò, allora, un Appennino trasformato in un enorme villaggio vacanze stagionale. E infine, ma non ultimi, spesso i fiancheggiatori della strategia dell’abbandono sono gli stessi abitanti dell’Appennino, quelli che pensano a fregarsi l’uno con l’altro, a ingraziarsi qualche amministratore locale in cambio dell’aumento di una cubatura, quelli che rigettano qualsiasi stimolo, quelli che Franco Arminio definisce “gli scoraggiatori militanti”, i più pericolosi. Caratteristiche che non riguardano una fascia anagrafica o un genere, ma che sono, per così dire, trasversali.
Il più delle volte la strategia dell’abbandono non ha una cabina di regia, un capo, ma è l’espressione di un insieme di fattori, che operano in maniera dolosa o colposa. Poi ci sono quelli che resistono alla strategia dell’abbandono, o quantomeno ci provano. Sono quelli che sull’Appennino ci abitano consapevolmente, nativi o arrivati da altri luoghi. Quelli che stanno quassù, non per una resa passiva al destino, o perché vocati al sacrificio, ma perché hanno scelto di farlo, perché qui trovano le ragioni di un’idea di felicità, di un’etica che diventa pratica quotidiana. E allora ci sono bambini, ci sono vecchi, cani, pecore, maiali, mucche e galline; ci sono imprese che producono qualità esclusivamente per il fatto di essere lì, in quelle condizioni ambientali ed altimetriche. Ci sono competenze e professionalità che possono lavorare anche da una piccola comunità sperduta sui monti, e che più che di strade a scorrimento veloce, hanno bisogno della banda larga e di internet, di infrastrutture telematiche che non ti abbandonino al primo temporale.
Ci sono ragazze e ragazzi che investono il proprio futuro qui, sull’Appennino, con competenze e conoscenze elevate. Come l’aglio per i vampiri la conoscenza, l’informazione, la partecipazione e la democrazia comunitaria sono l’antidoto contro la strategia dell’abbandono. Le persone che si riprendono i propri diritti civili e costituzionali, e ricostruiscono modalità collettive di interlocuzione con i diversi poteri, spiazzano e spaventano; di fronte alle comunità che si ritrovano insieme per una causa, che la sostengono in un conflitto dialettico e nonviolento, la strategia dell’abbandono sbanda, vacilla, fino ad arretrare. La lotta alla strategia dell’abbandono potrà aver successo se le persone che vivono sull’Appennino riscopriranno un nuovo civismo, nuove pratiche democratiche e partecipative, se si passerà dall’”io” al “noi”.
Il bio che non trema, Senigallia. Gennaio 2017 |
Il lavoro più prezioso dovrà farlo chi ha scelto di vivere sull’Appennino, trascinando chi sta già lì per nascita, promuovendo una diversa coscienza di attenzione e valorizzazione del territorio, capace di superare i difetti, qualche cattiva abitudine incrostata, localismi e particolarismi di caseggiato, la saccoccia come fine ultimo ed esclusivo di ogni iniziativa e attività. La sfida è riuscire a coltivare e far crescere una nuova idea di comunità e di appartenenza, che tenga conto del valore dell’identità e delle radici storicizzate, ma che definiscano anche nuove e plurali identità, frutto di contaminazioni.
E il terremoto in tutto questo? Ah già, il terremoto. Un terremoto, tanto più di larga scala territoriale e con effetti devastanti come quelli generatisi dal 24 agosto 2016 in avanti, non sconquassa solo elementi geomorfologici e urbanistici, ma ribalta anche dinamiche umane, sociali, culturali e politiche consolidate, rimescolando molte carte e tutto questo sia nel bene che nel male. Guardando in particolare al territorio del cosiddetto cratere marchigiano, per mia conoscenza diretta, molti aspetti immateriali non sono già più come prima. Così come è impensabile “il com’era, dov’era” e solamente dei millantatori possono affermarlo.
Da una parte si potrebbe affermare che la grande solidarietà privata, fatta di donazioni e di volontariato, che è stata riversata sulle comunità, la formazione di istanze che hanno aggregato cittadini, imprenditori, associazioni e movimenti che – partendo dalla emergenza di informazione e condivisione per quanti sono stati colpiti dal sisma – hanno rimesso in campo pratiche partecipative e democratiche che la politica tradizionale aveva dismesso da tempo. E una nuova stagione di fratellanza, tra quanti della stessa comunità si sono trovati a vivere in condizioni di enorme disagio e precarietà, lascerebbe ben sperare sulla possibilità che la strategia dell’abbandono possa non avere la meglio.
Tuttavia c’è sempre un ma. Anzi diversi ma, in questo caso. A porli, tanto per cominciare, una goffaggine senza precedenti nel dare risposte ai cittadini e ai territori colpiti da parte della filiera istituzionale. Dunque i ritardi di ogni tipo verso le persone, gli animali e le cose, dopo oltre 12 mesi dal primo terremoto, mentre le risposte immediate conseguenti alla fase dell’emergenza si sono risolte l’evacuazione totale di interi centri che vede ancor oggi migliaia di persone delocalizzate sulla costa o comunque lontane dai propri paesi, senza contare le macerie che hanno assunto ormai avanguardistiche fisionomie monumentali.
Per non parlare del tutti contro tutti per ottenere qualcosa in più del vicino da parte di non pochi amministratori locali, dello scaricabarile tra livelli istituzionali. O ancora la zizzania seminata ad arte da parte di alcuni sindaci tra i propri cittadini, mettendo l’uno contro l’altro (spesso in base al criterio del “tu mi hai votato ti favorisco, tu non mi hai votato, per ora aspetti”). Ecco tutto questo ha determinato un depauperamento della consapevolezza del proprio genius loci già di per sé traballante. E fosse finita qui. C’è pure, complice il conto alla rovescia verso il voto per le politiche del 2018, lo sciacallaggio politico a fini elettorali che viene continuamente fatto da parte di alcuni partiti sulla pelle e la vita delle persone. Tutti elementi che favoriscono un rigurgito, dopo mesi di condizioni di vita in “cattività”, dell’italica furbizia o scaltrezza, fatta dal potersi fregare a vicenda, anche con il confinante di casa. Mentre, e questo è evidente, non solo non c’è un avvio minimo di ricostruzione, ma soprattutto è palese la totale mancanza di una visione della ricostruzione di questi territori.
Le situazioni da raccontare, e da annoverare in una parafrasi possibile di uno sferzante aforisma di Ennio Flaiano ovvero “la situazione politica in Italia è grave ma non è seria”, sarebbero centinaia. Tali premesse non possono che portare a una immediata conclusione sugli esiti della vicenda: la partita è segnata e la strategia dell’abbandono, per cause dolose e colpose, trionferà. Secondo alcune stime, d’altra parte, il 20 per cento di quanti sono stati costretti a lasciare il proprio paese, ha già deciso di non tornare riorganizzandosi la vita altrove. Allora che fare, per rimanere in tema di linguaggio calcistico, arrendersi alla goleada, ritirare la squadra addirittura dal campionato? Io non ho ricette, come molti altri vivo questa esperienza in “un giorno per giorno”, fatta di ascolto diretto, di informazioni raccolte, di confronto con soggettività che possono rappresentare una visione nuova e sperimentale di politica e democrazia.
Mi convince una cosa però, che ho ascoltato più volte e da persone con storie e visioni ideali diverse tra loro. “Kon ovla so mutavia kon ovla, ovla kon ascovi” (“chi sarà a raccontare chi sarà, sarà chi rimane”), recitano i versi di una canzone rom ripresa da Fabrizio De Andrè. “Sarebbe necessario un ’68 dell’Appennino” sostiene Franco Arminio. Tanto più necessario per l’Appennino marchigiano che, ancor prima della sequenza di terremoti del 2016/2017, è stato spolpato fino all’osso da anni di politiche sbagliate e da un industrialismo e un modello di sviluppo che ha vandalizzato i territori (altro che Marche del “capitalismo dolce”, come sostiene un sociologo molto in auge da queste parti). Un ’68 dell’Appennino che veda protagonisti, agitatori, sobillatori, quelli che non se ne sono andati, quanti torneranno e quelli che, sebbene non siano nati qui, potrebbero arrivare.
Una rifondazione civile, sociale economica ed etica di questa parte del Paese – parlo delle quattro regioni del cosiddetto terremoto del Centro Italia – in cui vivono oltre venti milioni di persone, di cui tre milioni nel solo cratere sismico (almeno fino al 24 agosto 2016). Il terremoto, seppur nella sua catastrofica e tragica natura, può segnare, paradossalmente e provocatoriamente, una ripartenza. Dopo che tutto è stato rimescolato e niente è, né potrà essere, come prima. Non è un traguardo di breve tempo, questo è certo. Si tratta, piuttosto, di intraprendere una nuova “lunga marcia”. Sull’Appennino e per l’Appennino. Quanto a me rubando ancora le parole di quella canzone, a proposito si chiama Khorakhané (A forza di essere vento), ho già deciso: “Me gava palan ladi, me gava palan bura ot croiuti”. Vuol dire: “Io seguirò questo migrare, seguirò questa corrente di ali”. Sull’Appennino e per l’Appennino.
Norcia. Ottobre 2017 |
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