Le scosse che hanno fatto tremare la terra nei nostri comuni hanno inevitabilmente portato con loro nel corso di questi 13 mesi una lunga scia di aneddoti, drammi, carenze, colpe, racconti. Fatti singoli su cui occorre fare informazione e denuncia, ma come sempre più spesso accade tutto questo si trasforma in un elenco della spesa o in indignazioni che durano il tempo di una bestemmia. Nulla si sedimenta, tutto passa e diventa frustrazione e stanchezza, voglia di mollare e dimenticare. Una sorta di “burocrazia della memoria” imbriglia la mente impedendoci di andare avanti senza farci distinguere le differenze tra i compagni di viaggio e chi ci ostacola. Vogliamo quindi provare ad affrontare la questione nel suo complesso, cercando di guardare la situazione dall’alto ma con i piedi ben piantati a terra.
Occorre cominciare da una visione lucida della realtà, della storia e della “civiltà” di questo territorio:
la compattezza geografica […] delle Marche, non è accompagnata da un’eguale compattezza nella storia della regione. […] Naturalmente, occorre intendere questa mancanza di compattezza e di uniformità non nel senso estremo di differenziazione di “civiltà”, ma nel senso proprio dell’espressione, cioè di mancanza per secoli di una storia veramente comune, di fini ed ideali comuni, della necessità e della consapevolezza di una comune tensione verso mete comuni […]. Se si comprende questo, si potrà comprendere anche lo spirito della sua gente, ancora tenacemente attaccata al suo gonfalone municipale, gelosa delle sue tradizioni e delle sue memorie, testardamente abituata a far da sé, individualista (anche troppo), chiusa nell’ambito della piccola comunità familiare e delle comunità locali, sospettosa verso le novità.*
Infatti una delle risposte più pericolose che possiamo dare a quanto sta succedendo nel nostro territorio a partire dal 24 agosto 2016 è quella che passa attraverso la mitizzazione di un passato che non è mai esistito. Attraverso la creazione di mitologie comunitarie facili e rassicuranti che non ci aiutano ad uscire dallo stallo in cui ci hanno imprigionato e dal quale potremo uscire solo con un’idea di futuro che interroghi quanto è stato cogliendone tutte le criticità. Questo passo spetta a noi, uno scarto mentale che dobbiamo compiere dai nostri paesi puntellati, crollati, “lamati”.
Uno dei racconti che riempiono molto spesso gli articoli di approfondimento degli esperti del territorio dell’ultimo minuto è quello che ci parla di primordiali comunità armoniose, unite, costituite da rapporti saldi e basate sul mutuo aiuto. Sappiamo che non è così, o almeno sappiamo che questo è un racconto parziale che non coglie la complessità dei piccoli borghi in cui, se vieni da 10 km di distanza, sei “quello di fuori”. Ricostruire un passato falso non rende tra l’altro giustizia alla ricchezza straordinaria dei nostri territori, anzi forse è il caso di partire proprio dai “nostri territori”. In questi mesi abbiamo abitato alternativamente nel Centro Italia, nel Cratere, al confine tra MarcheUmbriaLazioeAbruzzo, nelle Regioni Centrali. Tutte indicazioni geografiche indistinte vuote, che danno un’idea vaga della zona colpita e in cui si mette insieme tutto e niente. L’effetto è quello che si ha quando aprendo la dispensa e trovando tanti piccoli rimasugli si fa cuocere una pasta con formati e tempi di cottura diversi. Il risultato (pessimo) è quello di avere contemporaneamente un piatto di pasta inguardabile e immangiabile che è allo stesso tempo scotto e troppo al dente con spaghetti intrecciati a fusilli e farfalle triturate. A partire dai luoghi e dalla loro geografia è forse il tempo di ri-contestualizzare e ripensare le categorie con cui abbiamo provato ad analizzare le tante storie diverse che compongono la nostra movimentata storia collettiva. Una di queste, probabilmente “la” categoria abusata per eccellenza è quella dei terremotati.
Quando parliamo di un terremotato ricordiamoci sempre che, tecnicamente, stiamo indicando genericamente una persona che è stata colpita o ha subito danni dal terremoto. Ma come nel cosiddetto cratere troviamo contemporaneamente paesi appena sfiorati e paesi distrutti, nella categoria dei terremotati troviamo di tutto. Morti, feriti, sfollati, proprietari di seconde case, ricchi, poveri, stronzi, delatori, volontari, migranti, pastori, imprenditori, scrittori, speculatori, rifugisti, pessimisti, ottimisti, anziani, neonati e potremmo continuare all’infinito. Gli effetti del terremoto su queste persone sono stati gli stessi? Tutti hanno reagito o hanno avuto la possibilità di reagire allo stesso modo? Hanno tutti la stessa idea di futuro e di sviluppo del loro paese e della loro regione? Ecco che vista così la categoria del terremotato inizia ad apparire per quello che è: conflittuale e multiforme. Le storie di chi è stato colpito dal terremoto diventano immediatamente più articolate. Le differenze e le similitudini tra le persone non sono più determinate solo dal vivere ad Amatrice o a San Severino, ma soprattutto dall’avere o no la possibilità di ricostruire un futuro, materialmente e non solo, a seguito di quanto accaduto. Il vero confine è quello tra l’alto e il basso, tra chi decide e chi subisce le decisioni, tra chi è costretto ad arrangiarsi e chi può permettersi di scegliere, tra chi ha possibilità economiche e chi non le ha.
A ben vedere quindi la situazione dei “terremotati” non è molto diversa da quella che ritroviamo nel resto della società. Le scosse hanno solo fatto emergere tutte insieme le contraddizioni e le problematiche di un modello di sviluppo predatorio e discriminante che alimenta i privilegi di pochi e impoverisce le relazioni umane. Se noi per primi non riusciremo a cogliere questo elemento, se noi per primi non riusciremo a capire che “le Peppine” dei vari paesi hanno molto più in comune con i rifugiati sgomberati a Roma questa estate che con chiunque altro, non andremo lontano. Partendo da qui dobbiamo essere in grado di distinguere gli amici dai nemici, chi aiuta da chi specula, i lupi dagli sciacalli (che sono tra i pochissimi animali che proprio non vogliamo inserire sui Sibillini). Non sempre sarà facile, perché il tentativo in atto dai fautori della strategia dell’abbandono è quello di spaccare ulteriormente le comunità mettendo contro chi si trova nella stessa situazione di difficoltà.
A proposito della strategia dell’abbandono: non dobbiamo certo immaginarci un uomo malvagio, solo al potere, che dietro alla scrivania progetta lo spopolamento delle zone montane. La costruzione del “nemico perfetto” porterebbe agli stessi errori commessi nelle costruzioni dei miti con cui abbiamo aperto questo ragionamento. La situazione è ben più complessa, ma allo stesso tempo le responsabilità ci sono e sono facilmente identificabili a livello locale e nazionale, sia in ambito politico che economico. Su questo va sottolineata l'inadeguatezza dell’apparato statale ridotto oramai quasi esclusivamente a strumento repressivo a servizio dei grandi interessi economici. Il privato che prende il sopravvento sul pubblico, sempre con direzione dall’alto verso il basso. Il privato che solo apparentemente sopperisce alle mancanze del pubblico mentre invece erode progressivamente potere gestionale e decisionale. Basti pensare a come le scuole ricostruite siano solo quelle finanziate da donazioni private mentre, quando si parla dello Stato, sulla consegna delle SAE i ritardi stanno assumendo dimensioni grottesche.
Se vogliamo scendere nei casi specifici, è lampante la differenza tra la facilità con cui si è potuta realizzare una fabbrica ad Arquata del Tronto e gli ostacoli per un qualsiasi altro intervento in autonomia sulle abitazioni. Per non parlare del celebre “Deltaplano di Castelluccio”, la struttura (ma potremmo anche chiamarlo centro commerciale) che dovrebbe sorgere con vista sul Pian Grande, intervento presentato come salvifico e “provvidenziale” che arriva a livello progettuale dopo un anno di immobilismo totale. Neanche Berrettaccia, che pur raccontò la Battaglia di Pian Perduto, saprebbe raccontare un tale scempio.
Se vogliamo scendere nei casi specifici, è lampante la differenza tra la facilità con cui si è potuta realizzare una fabbrica ad Arquata del Tronto e gli ostacoli per un qualsiasi altro intervento in autonomia sulle abitazioni. Per non parlare del celebre “Deltaplano di Castelluccio”, la struttura (ma potremmo anche chiamarlo centro commerciale) che dovrebbe sorgere con vista sul Pian Grande, intervento presentato come salvifico e “provvidenziale” che arriva a livello progettuale dopo un anno di immobilismo totale. Neanche Berrettaccia, che pur raccontò la Battaglia di Pian Perduto, saprebbe raccontare un tale scempio.
Non dobbiamo cedere al ricatto finendo per dichiarare che “occorre meno Stato perché non fa, meglio il privato che fa in fretta”. Un intervento pubblico rapido ed efficace va preteso perché è nostro diritto, per questo tutte le storie singole e le dinamiche di autogestione e auto-organizzazione vanno inserite in un meccanismo vertenziale e non prettamente volto alla sopravvivenza.
Come dicevamo, “i bei tempi non ci sono mai stati”. E' bene ricordare anche che il nostro territorio è sotto attacco della speculazione e della devastazione territoriale da ben prima del sisma. La pedemontana di Matelica, l’inceneritore di Selvalagli, il gasdotto che dovrebbe attraversare l’Appennino (passando sotto i paesi distrutti), le trivellazioni in mare e potremmo continuare ancora, sono solo alcuni dei progetti che esistono da molto prima del 24 agosto 2016. Un iperattivismo sul fronte delle grandi opere che da decenni si accompagna ad un calo dei servizi base sul fronte sanitario, dei trasporti, ecc. Che futuro ci aspetta, anche quando (quando?) tutte le SAE saranno pronte e le macerie rimosse, se non saranno attivati nuovi servizi per la popolazione? Se un nuovo welfare non sarà garantito? Sono domande alle quali sarebbe bene rispondere fin d’ora.
Questo è il quadro, dipingerne un altro significherebbe portarci in giro.
Sarà dura certo mutarlo, ma anche in passato siamo riusciti a districarci in situazioni difficili che credevamo perse. Non partiamo da zero perché quanto successo ha anche portato alla nascita di relazioni e di dinamiche nuove che non sarebbero mai esistite altrimenti.
Sarà dura, ma nulla è perduto, e non perché le popolazioni dell’Appennino sono forgiate nella pietra o dai sacrifici (altro racconto consolatorio e auto incensante che non ci aiuta, anche nei casi in cui è veritiero), ma perché abbiamo tutti gli strumenti e le capacità per ricostruire un futuro.
Bisognerà reinventare le comunità sulla base di nuovi paradigmi, bisognerà imparare a reagire facendolo collettivamente a scapito dei piccoli interessi personali, senza mai dimenticare quello che è successo, chi ci ha seguito lungo la strada e chi quella strada ha cercato di sbarrarcela o ci ha fornito indicazioni sbagliate.
Arriverà il freddo e la neve, non tutte le SAE saranno pronte, pioverà nei container e ci saranno ancora macerie nei paesi, nessuno parlerà più della nostra situazione se non per i tristi anniversari, qualcuno non tornerà ed altri se ne andranno, cambieranno sindaci e governi.
Dalle vallate vedremo sempre svettare la Priora. e il Vettore degradare bruscamente a sud. Toccherà a noi saper Tornare, Resistere, Ricostruire.
*Dante Cecchi - Macerata e il suo territorio, il paese - Pubblicazione della Cassa di Risparmio della Provincia di Macerata, 1978 (pp. 20, 26).