Il secondo inverno è piombato sulle macerie con tutta la sua prevedibile crudeltà, ma le stagioni si sa fanno il loro lavoro, non possiamo prendercela con loro. Quello che invece continua a latitare è l’apparato istituzionale (ma non solo) che dovrebbe adoperarsi per rendere la vita nei luoghi terremotati quantomeno accettabile. Così, mentre il presidente Ceriscioli si lamenta perché “qui ogni volta che si rompe un tubo sembra si sia rotta una centrale nucleare“ e la CGIL segnala il rischio caporalato nei cantieri delle SAE del Consorzio Arcale, continua l’inferno di chi da 16 mesi oramai vive fuori casa.
Ma cosa succede nei, pochi, villaggi delle SAE consegnati? Le comunità si stanno veramente ricostruendo come annunciato tronfiamente dal Commissario De Micheli alla Leopolda qualche settimana fa? O oltre alle rotture delle tubature, ai boiler che saltano e alle infiltrazioni c’è anche qualcosa di più strutturale?
Con questa nota vogliamo sottolineare un aspetto di cui poco si è parlato in questi mesi, stiamo parlando della mancanza degli spazi aggregativi. Chiunque abbia provato ad organizzare un incontro o un qualsiasi evento in uno dei borghi colpiti dal terremoto sa benissimo che è quasi impossibile trovare degli “spazi comuni” a disposizione della cittadinanza. Con la bella stagione queste attività si sono svolte per lo più all’aperto, cosa impossibile con le attuali temperature vicine allo zero. Gli unici spazi a disposizione sono stati i pochi ristoranti e le poche strutture ricettive che non hanno subito danni e che hanno dato la possibilità a sindaci, comitati, associazioni e semplici cittadini di riunirsi nei loro spazi. Ora che lentamente si stanno consegnando le SAE le comunità avranno degli spazi comuni in cui riunirsi, organizzare un compleanno per i bambini o la festa di Capodanno? La famosa “ricostruzione delle comunità” è stata presa in considerazione? La risposta è no, purtroppo. Infatti nei villaggi delle cosiddette casette gli spazi aggregativi sono “un buco”, e non solo in senso metaforico. E’ stata prevista solamente un’area vuota, ma larghissima parte delle opere di urbanizzazione, di acquisto e installazione della struttura sono state lasciate in capo ai comuni. Sono le Amministrazioni Comunali, che già hanno il loro bel da fare per garantire la “straordinaria ordinarietà”, che devono trovare i fondi per garantire questo servizio. Ancora una volta quindi la vita dei borghi dipende dalle donazioni dei privati, dalla scaltrezza o “dagli agganci” del singolo amministratore che si ritrova a dover cercare sponsorizzazioni per riempire questo “buco” lasciato dallo stato. In questo contesto si creano situazioni di serie A e serie B, con condizioni limite particolarmente difficili come quella di Ussita, comune commissariato che risente ancor più degli altri della mancanza di queste dinamiche di “crowdfunding comunale”.
Riteniamo che questa situazione sia gravissima e che, sia a livello materiale che simbolico, costituisca un limite enorme alla ricomposizione dei legami sociali e alla creazione di una parvenza di normalità nelle comunità. Crediamo che questa mancanza debba essere sanata perché servizi di questa importanza non possono essere frutto del caso o di forme di liberalità privata ottocentesche ma diritti garantiti a tutti.
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