Il 29 ottobre 2017 eravamo in tanti alla Marcia del Ritorno organizzata da Terre In Moto. Ognuno con un “pezzo di terremoto” da raccontare, chi perché il dramma lo ha vissuto personalmente e ancora lo vive, chi per testimoniare e portare la propria solidarietà. Un ritorno simbolico attraverso la strada che collega Muccia a Pieve Torina, due paesi dell’entroterra maceratese ai piedi dell’Appennino, due dei 140 Comuni colpiti dal sisma del 2016/2017, per tenere viva l’attenzione laddove i crolli non fanno più rumore e dove tra le persiane chiuse e le strade vuote rimane un silenzioso senso di abbandono.
Il raduno è fissato di fronte alla sede della Varnelli, ditta che produce l’omonimo liquore all’anice. Il luogo è pratico dal punto di vista logistico, ma per chi vive da queste parti quel nome è a suo modo anche un simbolo, un trait d’union tra l’anima produttiva e la tradizione popolare, due volti inscindibili di questo territorio e del suo tessuto economico e sociale. Da lì si parte e i passi si muovono quasi silenziosi, in ossequio alla bellezza discreta di questi luoghi e alle ferite che si svelano lungo il cammino. Il terremoto ha lasciato segni lungo le strade del territorio e nelle vie dell’anima. Le voci raccontano e contestano, mentre gli occhi ripercorrono ciò che si è vissuto e che ogni giorno, qui come altrove, si continua a vivere. Ogni crepa che si svela dietro un angolo, ogni mattone caduto a terra e lì rimasto è una ferita che si riapre e ancora fa male e fa tremare. Passo dopo passo si alternano, si accavallano, si confondono la propositività, la rabbia, il dolore, la volontà di “tornare, resistere e ricostruire”.
A oltre un anno dall’inizio del dramma è ormai evidente che le promesse sulle tempistiche della ricostruzione sono state disattese, tutti devono ammettere che i ritardi ci sono e i problemi ancora sussistono e si aggravano. Lo stato di avanzamento nella costruzione delle Sae (le ormai note “casette”) – i cui termini di consegna erano previsti per mesi e mesi fa – è un esempio emblematico. Puntuali invece sono il rimpallo delle responsabilità e la speculazione politica sui singoli casi umani “notiziabili”, che pesano quanto lo sciacallaggio sullo stato d’animo di chi l’emergenza l’ha subita e sulle coscienze di chi la dovrebbe gestire e risolvere. E’ difficile scindere i ruoli tra soggetto e oggetto della narrazione, tra cronaca e vissuto personale, per me che da quella notte tremenda di un anno fa, degna del miglior romanziere, ho dovuto abbandonare prima la casa poi il luogo di lavoro. Per me che in questa marcia faccio parte dell’organizzazione e al tempo stesso la devo raccontare. Sperando che Bresson non si rivolti nella tomba per la citazione, in me convivono la mente dell’organizzatore, gli occhi del cronista e il cuore del terremotato: li provo ad allineare, per raccontare attraverso le immagini ciò che resta, ciò che si è perso e ciò che si vuole riportare.
Dopo tre chilometri di cammino la marcia svolta verso il centro di Pieve Torina e si ferma nel piazzale del Municipio dove viene esposto uno striscione che ricorda i nomi dei 140 comuni “del cratere”. Lo osservo e penso che esposto nella piazza di un Municipio ricorda un monumento ai caduti, uno dei tanti dedicati in queste zone alle vittime della guerra o ai caduti tra le file partigiane. Ma non c’è tempo per perdersi nei pensieri perché siamo a ridosso della Zona Rossa e anche qui non è sicuro sostare a lungo.
La marcia si scioglie, resta il tempo per una tappa al baracchino di legno che ha sostituito il bar del paese, per fare due chiacchiere con in mano un bicchiere. Un momento leggero ma non meno importante perché al pari delle case e delle strutture produttive deve essere risarcito e ricostruito il tessuto sociale, fiaccato dalle scelte di chi ha voluto lo sfollamento degli abitanti verso la costa. Di conseguenza la delocalizzazione delle attività produttive, quindi lo spopolamento del territorio.
E’ un popolo coriaceo quanto mite quello che abita questi luoghi. Se potrà esserci una rinascita attraverso la via dell’autodeterminazione, questa non passerà solo da obiezioni fiscali o reazioni di massa, ma soprattutto dalla ricostruzione del tessuto sociale e relazionale, che può e deve fare da volano per la ricostruzione del tessuto economico. Quando si spengono i microfoni mi soffermo ancora un po’ ad osservare queste strade e queste case: ciò che resta è il vuoto, un paese fantasma, lo stato di abbandono. Resta il silenzio, rotto soltanto dal vento che soffia forte in questa bella giornata d’autunno.